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Kurt Ammann o della grazia nella fotografia.

 

Mille novecento quarantotto. Kurt Ammann, poco più di vent’anni e una Leika.
È giovane Kurt e giovane, dopo tanto sangue e dolore, tenta di sentirsi il mondo. La guerra che ha devastato è sopita. Lascia distruzioni e rovine. Accanto, certa, sicura, altrettanto evidente del male e della morte, affiora la vita, la preziosa vita delle piccole cose, delle piccole virtù.
Nessuno può estirpare la violenza e il dolore. Ma aver visto il male tutto travolgere ha fatto sì che alcuni, adolescenti negli anni di guerra – e Kurt Ammann tra questi – di fronte all’enormità dell’accaduto crescessero integro l’animo loro, senza colpevoli dimenticanze e senza interessate rimozioni.
Quasi quei giovani premonissero come, nell’avvenire che si schiudeva, sarebbe stato loro compito aver cura della fragilità, della innocenza, delle flebili eppur tenaci speranze a sostegno di una ritrovata joie de vivre che era, forse, semplicemente, la incredula, stupita, felice constatazione di tornare a vivere.

Da allora, nel corso degli anni, Kurt Ammann non si soffermerà sul dolore che, pure, non ha cessato di incupire il mondo. Una scelta, la sua, che egli mantiene implicita, non detta. Si impegna fino a far sì che appaia quasi una sua naturale predilezione e, insieme, la sua cifra. E sembra spontanea l’adesione convinta con la quale egli testimonierà nella sua opera i momenti sospesi. Dico le occasioni che, per qualche mistero, ci consentono di soffermarci su un pensiero che ci è caro; o figurarci una illusione; o nutrire una scaglia vera di confidenza e di reciproco rispetto; o di partecipare una gratuita allegria - il dono degli dei ai mortali –; o di appagarci per una genuina gioia.

A questo sguardo pulito della sua giovinezza Kurt è rimasto fedele. Così le sue fotografie son composte come se, nell’effimero passare d’un attimo - fissando quegli slanci di fiducia, quei moti di appagamento,  quel desiderio di requie - la magia della macchina fotografica potesse non un’immagine fermare, ma un sentimento e uno stato d’animo. Quasi quel congegno meccanico, tra altri molti, possedesse anche il segreto, se non di rendere permanente la serenità e durevole la felicità, almeno di mostrarcele nella loro pienezza, reali, vive: nostre. Fosse solo per una volta.

Aprirsi al mondo, contro ogni pregiudizio ove l’ignoranza cova aggressività e sopruso, e riconoscersi nell’umanità senza distinzione di appartenenza. Rispettata in ogni singola persona, in ciascun luogo, la delicata, fragile e preziosa vita si conduce negli uomini secondo convincimenti, inclinazioni, credi, usanze, passioni e gusti, fantastici abbigli persino, ciascuno il proprio, ciascuno degno di cordiale, partecipata attenzione.

E luoghi, volti, gesti, abiti Kurt coglie senza che il suo intervento appaia, neppure una volta, intrusione, riveli un approfittarsi o un insinuarsi per afferrare, carpire ad ogni costo un effetto. E tuttavia Kurt, con la sua Leika, è lì. Come avviene solo nei fotografi di alta levatura, di grande talento, la camera restituisce e fissa quel tale sguardo di Kurt che chiede un’intesa, un contatto alla pari. Guarda gli occhi di chi ha di fronte, mentre non si sottrae, egli stesso, allo sguardo altrui. Non ruba Kurt, si offre. E a Kurt ci si offre.

Quello di Kurt è l’universo della grazia. La grazia, forma estetica e dimensione etica. Non il bello, non il sublime, non il comico. La grazia che muove alla relazione, invita ad una reciprocità, all’intesa appunto. La rara capacità di rimanere se stessi senza urtare o costringere l’altro. Coltivare, piuttosto, se stessi in virtù della finezza che si acquista quando, con l’altro, si sa stabilire un rapporto costante. Con tale animo Kurt percorre il vasto mondo, le città, le campagne e le rive del mare, e il suo atteggiamento, il suo tratto, si fanno, nella sua fotografia, poetica.

È il presente il tempo principale che tiene campo in quelle immagini. Il futuro è nel presente dei ragazzi, dei giovani. Il passato nei segni che ha impresso nel volto di chi ci sta innanzi e ci guarda. Il presente è l’energia vitale di un corpo. O abbandono al sonno. È la gelassenheit che consente i sogni. Traspaiono nel profilo d’un viso dagli occhi socchiusi; scorrono nel giro d’una spalla nuda al sole; si raccolgono nella spossatezza di una mano. E, qualche volta, sono sogni d’amore.

Non troveremo soggetti in posa. Tanto meno Kurt consente che la macchina fotografica uniformi secondo un codice, sottoponga a una griglia quanto il suo sguardo coglie. Le inquadrature non restringono né comprimono né, operando esclusioni, accentrano. Aprono, piuttosto, e allargano così da espandere la sensazione dello spazio che non cade entro il quadro fotografico, ma si estende tuttavia d’attorno.

Si considerino i ritratti di Kurt. Ci conservano un legame e una emozione in forma di immagine. Il sorriso divertito che affiora negli occhi di Marc Chagall e la spavalda ironia di Oskar Kokoschka. L’impareggiabile sprezzatura domestica di Friedrich Dürrenmatt. Erika Burkart nella sua concentrata lontananza e la mascherata insicurezza di Ingeborg Bachmann. La fiducia di Alain Resnais compiaciuto della cinepresa e Federico Fellini interdetto, quasi la sua perplessità proiettasse l’ombra che va a oscurare le caselle dell’ordinato calendario di lavorazione de Le notti di Cabiria.
Si sa che Kurt decise di non eseguire un ritratto di Thomas Mann perché lo scrittore, troppo compreso di sé, si atteggiava come chi, a beneficio dei comuni mortali, ha da stare eternamente in posa. E l’eterno, Kurt lo ha sempre saputo, non è tempo di cui tocchi render conto al fotografo.

Alberto Olivetti


Ginostra, 22 novembre 2011

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